L’Austria confina con l’Italia, e St. Valentin non dista
da Tarvisio piú di trecento chilometri; eppure il 15 ottobre,
trentunesimo giorno di viaggiò, attraversavamo una
nuova frontiera ed entravamo a Monaco, in preda ad una
sconsolata stanchezza ferroviaria, ad una nausea definitiva
di binari, di precari sonni su tavolati dì legno, di sobbalzi,
di stazioni; per cui gli odori familiari, comuni a tutte
le ferrovie del mondo, l’odore acuto delle traversine
impregnate, dei freni caldi, del carbone combusto, ci affliggevano
di un disgusto profondo. Eravamo stanchi di
ogni cosa, stanchi in specie di perforare inutili confini.
Ma, per un altro verso, il fatto di sentire per la prima
volta, sotto i nostri piedi, un lembo di Germania: non di
Alta Slesia o di Austria, ma di Germania propria, sovrapponeva
alla nostra stanchezza uno stato d’animo complesso,
fatto di insofferenza, di frustrazione e di tensione.
Ci sembrava di avere qualcosa da dire, enormi cose da
dire, ad ogni singolo tedesco, e che ogni tedesco avesse
da dirne a noi: sentivamo l’urgenza di tirare le somme, di
domandare, spiegare e commentare, come i giocatori di
scacchi al termine della partita. Sapevano, «loro», di Auschwitz,
della strage silenziosa e quotidiana, a un passo
dalle loro porte? Se sí, come potevano andare per via,
tornare a casa e guardare i loro figli, varcare le soglie di
una chiesa? Se no, dovevano, dovevano sacramente, udire,
imparare da noi, da me, tutto e subito: sentivo il numero
tatuato sul braccio stridere come una piaga.
Errando per le vie di Monaco piene di macerie, intorno
alla stazione dove ancora una volta il nostro treno
giaceva incagliato, mi sembrava di aggirarmi fra torme
di debitori insolventi, come se ognuno mi dovesse qualcosa,
e rifiutasse di pagare. Ero fra loro, nel campo di
Agramante, fra il popolo dei Signori: ma gli uomini erano
pochi, molti mutilati, molti vestiti di stracci come
noi. Mi sembrava che ognuno avrebbe dovuto interrogarci,
leggerci in viso chi eravamo, e ascoltare in umiltà
il nostro racconto. Ma nessuno ci guardava negli occhi,
nessuno accettò la contesa: erano sordi, ciechi e muti,
asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di
sconoscenza voluta, ancora forti, ancora capaci di odio e
di disprezzo, ancora prigionieri dell’antico nodo di superbia
e di colpa.
Mi sorpresi a cercare fra loro, fra quella folla anonima
di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un
nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non
rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso,
umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: ché non loro,
ma altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece.
Se a Szób avevamo imbarcato un ospite, dopo Monaco
ci accorgemmo di averne imbarcato una intera nidiata:
i nostri vagoni non erano piú sessanta, bensí sessantuno.
In coda al treno viaggiava con noi verso l’Italia un
vagone nuovo, stipato di giovani ebrei, ragazzi e ragazze,
provenienti da tutti i paesi dell’Europa orientale. Nessuno
di loro dimostrava piú di vent’anni, ma erano gente
estremamente sicura e risoluta: erano giovani sionisti, andavano
in Israele, passando dove potevano e aprendosi
la strada come potevano. Una nave li attendeva a Bari: il
vagone l’avevano acquistato, e per agganciarlo al nostro
treno, era stata la cosa piú semplice del mondo, non avevano
chiesto il permesso a nessuno; l’avevano agganciato
e basta. Me ne stupii, ma risero del mio stupore: – Forse
che Hitler non è morto? – mi disse il loro capo, dall’intenso
sguardo di falco. Si sentivano immensamente liberi
e forti, padroni del mondo e del loro destino.
Per Garmisch-Partenkirchen giungemmo la sera al
campo di sosta di Mittenwald, fra i monti, sul confine
austriaco, in un favoloso disordine. Vi pernottammo, e
fu l’ultima nostra notte di gelo. Il giorno seguente il treno
discese su Innsbruck, e qui si riempí di contrabbandieri
italiani, i quali, nella carenza delle autorità costituite,
ci portarono il saluto della patria, e distribuirono
generosamente cioccolato, grappa e tabacco.
Nella salita verso il confine italiano il treno, piú stanco
di noi, si strappò in due come una fune troppo tesa:
vi furono diversi feriti, e questa fu l’ultima avventura. A
notte fatta passammo il Brennero, che avevamo varcato
verso l’esilio venti mesi prima: i compagni meno provati,
in allegro tumulto; Leonardo ed io, in un silenzio gremito
di memoria. Di seicentocinquanta, quanti eravamo
partiti, ritornavamo in tre. E quanto avevamo perduto,
in quei venti mesi? Che cosa avremmo ritrovato a casa?
Quanto di noi stessi era stato eroso, spento? Ritornavamo
piú ricchi o piú poveri, piú forti o piú vuoti? Non lo
sapevamo: ma sapevamo che sulle soglie delle nostre case,
per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e la
anticipavamo con timore. Sentivamo fluirci per le vene,
insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz:
dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere,
per abbattere le barriere, le siepi che crescono spontanee
durante tutte le assenze intorno ad ogni casa deserta,
ad ogni covile vuoto? Presto, domani stesso, avremmo
dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti,
dentro e fuori di noi: con quali armi, con quali energie
con quale volontà? Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi
da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi. I
mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini
della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua,
una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale
ma irripetibile del destino. [[…]]